MUSICA VISIVA

(prima di leggere spero tu abbia visto il video tutorial)

 

Due parole col professore

Impossibile tradurre in una categoria formale cosa sia la “musica visiva” e tentare di ingabbiare un genere musicale in tale definizione sarebbe un problema spinoso in quanto fare ciò presuppone definire cosa sia “visivo”. In parole povere, e di prima intenzione, verrebbe da dire che la musica non si vede ma si sente! Mitigando poi l’istinto della risposta con una riflessione dovuta, si vorrà (mi auguro) correggere il tiro: la musica non si vede ma si ascolta! E già che abbiamo messo in moto il cervello converremo nel farci un giro col nuovo mezzo di locomozione figurata e rettificheremo ancora: “Beh, non tutta la musica si ascolta soltanto, per esempio quando ascolto “quella su MTV” è inevitabile (o quasi) che io la veda!” Ecco il videoclip è sicuramente musica da ascolto ma anche da sguardo! Poi, ma solo i più attenti che ricordano Purcell e Mendelssohn, concluderanno con l’ennesima rettifica: “la musica si ascolta ed alcuna musica si vede, anzi, si guarda pure!” Fosse così semplice avremmo racchiuso con una formula mille anni di storiografia musicale … buon per noi (o peggio per alcuni) che non sia così! Quello su cui ci dobbiamo interrogarci è: quale è il rapporto tra musica ed immagine? Ognuno di noi a questo punto del ragionamento ha una propria personalissima concezione, e noi ben sappiamo che definire non è dare un’opinione: dobbiamo dunque sganciarci dai concetti personali e semplificare. Chiediamoci, forse ingenuamente ma efficacemente, cosa nasca prima, l’immagine o la musica. Parrà chiaro che il problema è analogo a quello dell’uovo e della gallina, ma procediamo.

Caso A (prima la musica poi l’immagine): parleremo semplicemente di POTENZA EVOCATIVA quando la musica, passando per l’orecchio attento, proietta dentro (introietta) in noi delle immagini. Chiaramente queste immagini sono la ri-evocazione di una esperienza vissuta, se non abbiamo mai visto un albero nella nostra vita, se non abbiamo dell’albero un’esperienza sensoriale (non lo abbiamo visto, toccato, vissuto, annusato) la musica non potrà EVOCARCI un albero, giusto? Dunque la potenza evocativa (per potente che sia) non crea ma richiama. Del resto abbiamo detto EVOCARE, non CREARE! Va da sé, proseguendo il discorso, che la potenza evocativa si limita ad evocare qualcosa di cui si ha avuta una precedente esperienza e che tale esperienza è soggettiva (mia, tua, sua) e diversa per ognuno di noi e sarà più forte quanto più si rivolgerà a concetti universali.

Caso B (prima l’immagine poi la musica): c’è una immagine (un quadro per esempio), io la vedo, questa immagine si stampa prima sulla retina del mio occhio poi in un luogo deputato del mio cervello. Se questa immagine arrivata al cervello ha acquisito un senso, un odore, un gusto, un significato particolare, io la posso restituire con (ad esempio) parole … o con musica. Tocca a questo punto fare una precisazione: buona e troppa parte della musica classica evoca “paesaggi sonori”, così stando le cose tutta la musica (mi perdonino i compositori di musica pura, che è quella che parla esclusivamente di sé stessa) rischia di essere “visiva”! Limitiamo dunque: Mario è un genio nella matematica (nella matematica è la limitazione); la musica visiva (che noi abbiamo chiamato di tipo B) è chiaramente visiva perché dichiaratamente visiva; il compositore M. M. ha infatti intitolato la propria opera “Quadri di un’esposizione”, non lo ha lasciato intuire, lo ha affermato!

Caso C (musica ed immagine nascono insieme): in parole semplici e tagliando corto per la gioia di molti, è il caso di Handel1e Purcell2 e Mendelssohn3 (in quanto hanno scritto dei Balletti) i quali, mentre

1 https://www.youtube.com/watch?v=-Haqr5MHnjI

2 https://www.youtube.com/watch?v=kDDCxBuTwrE

3 https://www.youtube.com/watch?v=wCWkmJzHIWY

scrivevano la loro musica, dovevano aver presente la “coreografia” che vi si sarebbe apposta (almeno per grandi linee), dovevano tener presente tempi e luoghi e possibilità di acqua, teatro, ballerini. Così scardiniamo pure le tre categorie, buttiamo la A, la B, la C, e ci resta una riflessione sul rapporto tra musica ed immagine (fissa nel caso di quadri e natura, in movimento negli altri), rapporto di tipo dialettico (dialogo) e di difficile subordinazione: nasce prima l’uovo o gallina?

 

Il Videoclip

Il videoclip (conosciuto in Italia anche come video musicale o anche semplicemente video o clip) è un breve filmato prodotto a scopo promozionale per un brano musicale, solitamente una canzone presente in tutta la lunghezza del video. In alcune parti del mondo, come in Giappone, è anche detto promotional video, abbreviato in PV. I videoclip utilizzano differenti forme stilistiche ed espressive per commentare visivamente il brano musicale: molti di essi si compongono della semplice riproduzione filmica del cantante o del gruppo musicale che eseguono il brano; altri creano minifilm con trama (recitati talvolta dagli stessi componenti del gruppo) oppure non narrativi e si possono avvalere di sequenze animate o di immagini documentaristiche. La pratica di abbinamento di immagini filmate a brani musicali risale sin dagli anni cinquanta, ma il videoclip diviene molto popolare a partire dall'inizio degli anni ottanta con la nascita delle prime televisioni con palinsesto interamente musicale.

Per approfondire (sola lettura):

 

IL VIDEOCLIP

(da Michelone Guido , Videoclip, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (23/03/2019)).

La parola, spesso abbreviata in clip (letteralmente ritaglio), indica un breve filmato, dalle immagini suggestive, che accompagna l’esecuzione di un brano di musica leggera.

Storicamente il v. (sta per videoclip) s’afferma alla fine degli anni Settanta in Gran Bretagna e negli Stati Uniti nel settore della canzone rock, dapprima come pubblicità interna alle aziende discografiche e in seguito quale mezzo espressivo autonomo per un business internazionale, che sta ormai regolarizzando il ciclo completo della creazione musicale: dalla scelta del brano o dell’interprete fino alla loro presentazione attraverso quasi tutte le forme della comunicazione mediale: disco, concerto, tournée, passaggi televisivi e radiofonici, rapporti con la stampa, gadgets e merchandising.

A livello sociologico l’ascesa del v., almeno per tutti gli anni Ottanta, può spiegarsi come tentativo, da parte dell’industria dello spettacolo, di offrire qualcosa di diverso alle masse giovanili in un momento difficilissimo per la creatività musicale. Da un lato la crisi (soprattutto ideologica) dei grandi raduni alla Woodstock e dall’altro le novità tecnologiche digitali (con il CDa soppiantare in fretta i vecchi 45 e 33 giri), hanno favorito l’ingresso di un’inedita tipologia di fruizione sonora, in cui l’immagine prevale addirittura sui fondamenti della canzone (le parole, l’arrangiamento, la voce del solista, lo stile degli orchestrali, ecc.).

La strategia per un trionfo planetario del v. si fonda negli anni Ottanta sulle potenzialità di due importanti innovazioni mediologiche: la videocassetta da un lato, la neotelevisione dall’altro. Ma in entrambi i casi il successo rimane sempre al di qua delle previsioni per una serie di motivi ancor oggi non chiaramente spiegabili, oltre il perdurare di una situazione pressoché analoga: la vendita delle cassette

coi v. è da sempre inferiore sia al disco sia ai nastri d’altro genere (film, cartoon, sport, ecc.), nonostante l’enorme diffusione del videoregistratore proprio nelle aree(ovviamente America e Inghilterra) in cui è maggiore la spesa per i consumi musicali e in cui sono nate le principali correnti legate, per così dire, alla ‘videizzazione’ della ricerca sonora.

La neotelevisione, invece, si comporta in maniera ambivalente rispetto all’offerta dei v. Le emittenti generaliste si limitano a usarli strumentalmente come sigle di programmi o come passaggi obbligati negli spettacoli leggeri dove viene a mancare l’ospite dal vero o ancora come bizzarra novità attorno a cui ricavare specifiche trasmissioni postmoderne; invece le Tv mirate, che snobbano il fenomeno, vengono ben presto rimpiazzate da alcune piccole stazioni che scommettono su una programmazione giornaliera di soli v. a getto continuo. È proprio qui, con MTV negli States (ancor oggi attivissima e presente in tutto il mondo) e con Videomusic (1984-1995) in Italia, che il v. trova non solo la giusta collocazione, ma una specifica identità comunicativa, quale minitesto da consumare come flusso veloce in incessante progressione.

Insomma le emittenti monotematiche degli anni Ottanta hanno la stessa funzione delle radio ‘libere’ del decennio precedente; come queste ultime hanno lanciato un vero e proprio linguaggio, così MTV (e di riflesso Videomusic) crea uno stile ‘clip’ che a sua volta si riversa sulla maniera ‘video’ di fare musica: maggior attenzione alla telegenia di cantanti e gruppi, preminenza dell’immagine sulle sonorità, riflessi dei cambiamenti epocali nei valori giovanili. In tal senso il v. ha favorito l’effimero sull’impegno, l’edonismo sulla partecipazione, l’individuo sulla collettività; generi e sottogeneri (new wave, post-punk, new romantic, techno-pop), nati quasi come supporto all’iconografia v., esprimono assai bene – anche se in maniera più o meno consapevole – l’ideologia di quel decennio: come una canzone di Bob Dylan vent’anni prima illustrava o preconizzava il pacifismo, le lotte per i diritti civili, la nuova frontiera kennediana, le rivolte studentesche, gli hippies, il Sessantotto, così un v. dei Duran Duran è l’esempio rassicurante – o quasi sinonimo – di politica reaganiana o thatcheriana, gioco in Borsa, ultima guerra fredda, yuppie, carrierismo rampante, notti in discoteca, sfilate di moda.

Sul piano del racconto visivo il v. può venir letto seguendo una triplice ripartizione che a sua volta ruota attorno alle maggiori combinazioni del rapporto suono/immagine.

– C’è innanzitutto un racconto per immagini che visualizza la storia della canzone (i contenuti del testo letterario) con un’impostazione genericamente cinematografica sul piano del montaggio, della recitazione o degli effetti speciali, senza contemplare nessun riferimento visivo all’interprete musicale. È questa la soluzione adottata nei primi tempi, soprattutto da musicisti che detestano l’apparire o l’idea stessa del v.

– La seconda ripartizione concerne quei v. con riprese quasi documentarie di cantanti o gruppi che interpretano il pezzo musicale, muovendosi tra sfondi naturalistici o allestimenti coreografici di totale astrazione o di nuovo surrealismo anche con il ricorso a tecnologie computerizzate.

– La terza ripartizione, oggi la più frequentata, integra quasi alla perfezione non solo le due precedenti, ma il concetto stesso di v. che, unendo suono e figurazione, raccoglie simbolicamente al proprio interno una componente astratta (la musica) e un’altra più referenziale (l’immagine). Si tratta infatti dei v. in cui lo show degli interpreti è alternato o inframmezzato, talvolta in montaggio parallelo, talvolta coi preziosi virtuosismi della computerizzazione, a una fiction con altri protagonisti (attori, testimonial, top model). Il musicista costituisce una sorta di spettatore dentro il v. che assiste alla drammatizzazione che egli stesso racconta cantando.

Per quanto riguarda l’apporto dei musicisti all’evoluzione del v., si può affermare che esso sia ormai un passaggio obbligato per tutte le rock-star e i divi della canzone: non tanto un banco di prova sul piano artistico, quanto piuttosto il momento-clou di una carriera. Se infatti il disco o il concerto resta ancora il primo traguardo per un esordiente, il v. (come anche la tournée negli stadi) connota la sua definitiva consacrazione nel firmamento massmediale.

 

 

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